Umani, demoni, fanciulle fatate, principesse, cavalieri erranti, druidi, saggi, sacerdoti, contadini, precettori; ci fu un tempo in cui ognuno credeva di esistere in un’unica forma, incatenato alle parole, costretto dalle definizioni, rinchiuso nel labirinto e nutrito, affinché non avesse velleità di fuga o pensieri di libertà. Creature meravigliose, fatte per essere contemplate, custodite con garbo e assecondate per necessità: la loro danza all’interno delle mura talvolta era così soave da far nascere un sentimento di pace interiore, agli occhi degli spettatori.Nessun abitante dei due mondi, ai tempi in cui l’antica foresta ancora non aveva visto il grande cervo con i suoi occhi, aveva mai pensato di voler cercare un’immagine di sé da poter mostrare agli altri.
Ognuno sapeva. Nessuno sapeva.
Un giorno d’inverno, prima che il sole calasse ed il ghiaccio potesse così immobilizzare ogni soffio di vento, un bambino umano si avventurò nella foresta, alla ricerca di un pensiero perduto. Egli lo aveva custodito nel corso della sua breve esistenza, lo aveva amato ed aveva sentito il suo essere come un caldo rifugio nelle notti fredde; ma ora, con suo grande smarrimento, non riusciva più a trovarlo.
Si chiedeva come i suoi ricordi avrebbero potuto riaffiorare, come sarebbero stati i suoi racconti, senza la guida della sua morbida e preziosa idea.
Creatura rara, difficile da vedere e da credere, cucciolo di volpe bianca.
Proseguì per un po’ lungo il sentiero battuto, luogo di cui conosceva bene ogni curva, ogni angolo, ogni radura. Scoprì molte curiose forme e colori meravigliosi, i suoi sensi danzavano come accade quando la dolcezza dello spirito del vento accompagna le notti d’estate. Ma non trovó ciò che cercava. Inizió a pensare che per ritrovare ciò che aveva perduto, avrebbe dovuto perdersi a sua volta.
Decise quindi di inoltrarsi nel folto boschetto di castagni e lo attraversó fino all’estremità più lontana, ma la sua ricerca restó ancora vana.
Egli sapeva che i pensieri sono sfuggenti e difficili da catturare, ma conosceva bene il suo ed anche l’immagine custodita in esso. A lui piaceva e non avrebbe rinunciato, anche se la sera incombeva e la luna stava iniziando il suo cammino.
Nonostante la sua costanza e determinazione, le ore passavano senza che il suo viaggio si concludesse con successo; tutte le creature sanno che l’antica foresta gioca con lo spazio ed il tempo: come un’abile danzatrice sposta e conduce con leggerezza ogni elemento che vive e respira dentro di lei. Fu così che il bambino, concentrato nella ricerca, non percepì la differenza tra sembianza ed essenza e, quando finalmente raggiunse il suo obiettivo, con grande stupore non trovó affatto ciò che si aspettava.
Il suo amato pensiero, il suo sé, il suo amico, era riflesso nel cavo di un’antica quercia: era lui, proprio come quando lo aveva lasciato; la foresta però lo aveva reso tangibile ed egli conobbe sé stesso, così come gli altri lo vedevano dall’esterno.
La linfa dell’albero gli riveló il suo aspetto: fu così che egli incontró un vecchio, saggio e chiacchierone, capace di parlare con le creature del bosco e di intrecciare i capelli grigi con i rami di edera ed ortica. Le sue mani erano grandi e le dita secche, i suoi occhi profondi e azzurri, luminosi come chi conosce le stelle e racconta solo a pochi.
L’acqua di quercia era il mezzo per osservare il riflesso di sé: il vecchio ne domandò un poco da portarsi via e la gentile pianta gliene fece dono. I sogni talvolta passano il confine tra i due mondi, se un custode coraggioso, curioso e determinato li accompagna al limite del passaggio.
Ben presto il sentiero battuto riapparve insieme ai primi raggi dell’alba, ed in poco tempo l’anziano riconobbe la via di casa. Egli rientró al villaggio e si accorse di sapere: capì, fece dono e si riaddormentó.
Da quel giorno, ognuno poté richiamare la propria immagine di sé, riflessa in uno specchio d’acqua, versando una goccia di linfa di quercia. E fu così che da allora, i saggi colsero la differenza tra immagine e sostanza.