Favole

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IN VIAGGIO

In un tempo antico, esisteva una città, sotto la grande montagna, in cui viveva una famiglia di nani. Barba e capelli erano ciò che gli umani conoscevano di loro, roccia e terra ciò che le loro case conoscevano meglio.

Dei nani non si conosce il lato migliore: sono sinceri, umili e schietti, come il vino invecchiato nelle botti di ciliegio.

Le profondità della terra erano popolate anche da molte altre creature: formiche, millepiedi, scarafaggi, larve e lombrichi. Ognuno di essi viveva la propria vita svolgendo le attività che madre terra scrisse nella loro mente nelle epoche precedenti, e che fanno sì che i problemi non esistano o si possano risolvere con poco sforzo. Molti però non significa tutti.

Uno di loro, un lombrico, non era come gli altri. Non seguiva le regole, non ascoltava l’istinto, voleva vedere e capire e confrontarsi. Insomma, un piantagrane.

Lui non voleva restare tutta la vita sottoterra, avrebbe voluto contemplare il sole ed annusare il cielo, invece il suo istinto lo aiutava solo se si concentrava nello scavare gallerie. Ne parló con un amico, con un collega, con un maestro, ma nessuno dimostrava di capire nulla di ciò che egli dicesse.

‘Che intendi per lasciare la montagna?’ -gli chiedevano – ‘Dove pensi di andare?’.

Il verme allora raccontava come avesse ascoltato i racconti dei nani, attorno al fuoco della festa nelle notti di inverno e di come volesse raggiungere il cielo e vedere tutto ciò che altre creature elette potevano vedere e sentire e ascoltare.

Ma nessuno capiva e nessuno condivideva.

Un giorno un nano, più giovane degli altri, decise di allontanarsi dalla città alla ricerca di qualche pietra più brillante: fu così che si ritrovò a scavare nelle vicinanze del luogo in cui il lombrico ogni giorno setacciava il terriccio, come gli era stato detto dai suoi.

L’insetto, non appena lo vide, si avvicinò e domandó se potesse aiutarlo a realizzare il suo sogno: lui avrebbe voluto volare. ‘Non sei un uccello’- rispose il nano- ‘né una farfalla. Non sei nato per volare, non sei programmato per farlo, non è scritto così.’

Il verme allora replicò: ‘Non tutto ciò che riesci a vedere è come sembra e non tutto ciò che è scritto deve essere interpretato in un unico modo. Io sono un lombrico, ma ho gli occhi dell’aquila e lo sguardo del lupo.’

Il nano restó talmente colpito dalla saggezza di quell’essere così piccolo e inerme ma altrettanto forte e coraggioso che decise di portarlo via con sé. Lo condusse quindi alla città sotto la montagna e da lì, dopo qualche luna, lo affidò ad un vecchio mago di passaggio, che sapeva sarebbe uscito alla luce del sole nel giro di breve tempo. Il verme riuscì infine a vedere il cielo e con l’aiuto del mago, poté imparare a distinguere i moti della luna e delle stelle, dimostrando così che non tutto ciò che è scritto, anche se risale alle antiche ere, non possa essere riletto con gli occhi di chi vuole capirne la vera essenza e dimostrare che la risposta non è mai sempre e solo una.



UN ESPLORATORE 


Ci fu un tempo in cui le creature magiche convivevano con gli umani, quando ancora la caccia non occupava le loro menti, quando i loro cuori erano liberi dal costante desiderio di possedere ciò che di bello l’universo regala a questo mondo.

A quel tempo, una fata nacque ai piedi della montagna, oltre il bosco di castagni, accanto al lago delle trote blu.

Era dolce, gentile e di nobile animo, ma anche testarda, curiosa e sfuggente. Si sa che le fate vivono lunghe vite ma in prevalenza nella più completa solitudine.

Lei vagava per le terre emerse, osservava le piante, i semi ed i frutti e spesso li combinava insieme, nel tentativo di donare qualcosa di insolito e magico a tutte le anime che sapessero cogliere il bello nelle piccole cose. Le sue sorelle vivevano lontane, ognuna dedicandosi alla propria arte: leggere i simboli delle stelle, indirizzare i corsi d’acqua, addormentare i bambini, intrecciare le radici degli alberi. Ogni fata legge il mondo con i suoi occhi ed ognuna sa di aver bisogno di una strega, per comunicare con gli umani.

Ci fu un giorno in cui, durante il suo viaggio di luce, incontró un viaggiatore, che non apparteneva al piccolo popolo, e che era totalmente avvolto dentro un nero mantello di nuvole ed acqua gelida. Egli non vedeva oltre quella coltre, poiché i suoi occhi non erano abituati alla luce ed i suoi sensi erano appannati dalla pioggia: credeva che il mondo intero fosse rappresentato dall’interno del suo strano abito. La fata pianse, poiché sentiva dentro di sé il dolore della prigione, anche se l’umano sembrava non esserne consapevole. Animo dolce, decise di offrirgli un’opportunità.

Viaggió oltre i confini della foresta alla ricerca delle signore della luna; ne trovó una infine e riuscì a comunicarle le sue nobili intenzioni. La strega ascoltó con attenzione ed accettó con benevolenza la proposta della piccola creatura.

Quando giunsero al cospetto dell’umano, egli era ancora immobile, così come la fata lo aveva lasciato. Ignaro di ciò che stava per accadere, continuava a sopravvivere come aveva sempre fatto.

La strega lo avvicinò e posó su di lui il suo sguardo, lo accarezzó sulla spalla e fissandolo negli occhi lo invitó ad alzarsi, piano. Ella gli offrì una mano, ed allontanó con l’altra la fredda coltre di nubi che iniziò a muoversi lentamente, sparendo nella foresta, attratta dalle foglie di betulla.

Colei che unisce i due mondi parlò, e fece in modo che l’umano potesse vedere con i suoi occhi la creatura che gli aveva dato la possibilità di ammirare la meraviglia delle cose del mondo. Egli si consideró un eletto e decise di ringraziare le magiche creature donando per sempre il suo aiuto in qualità di esploratore dei mondi a cui poteva avere accesso. Lui conosceva e raccontava. Tale era la sua curiosità e la sua devozione che la strega, commossa da tale dedizione, decise di parlare con gli antichi spiriti che concessero all’umano di poter cambiare le sembianze in quelle di un lupo, all’occorrenza, in modo che potesse, indisturbato, attraversare i confini tra i due mondi. Ed ecco perché si dice che le streghe siano coloro che corrono con i lupi. E perché ogni strega abbia quasi sempre un lupo al suo fianco.

 

ROCCIA

Ai tempi in cui la mitica Atlantide era terra conosciuta, viveva un marinaio che abitava un’isola vicina, piccola e solitaria. Oggi le coordinate di quei luoghi sono celate ai più, poiché soltanto i custodi degli abissi insieme ai maghi ne sono a conoscenza ed ognuno di essi vive nascosto agli occhi degli uomini da molte ere, ormai.

Egli era un giovane saggio e silenzioso, dalla pelle scura e gli occhi neri; aveva le mani solcate dai segni di mille battaglie ed il silenzio era spesso il compagno delle sue giornate. La sua vita si svolgeva in prevalenza in mare, in compagnia dell’imbarcazione che si era costruito e di qualche vecchia rete rattoppata: pochi erano coloro con i quali condivideva qualche pensiero, un paio di birre ed il pane duro tipico della sua città.

Ogni giorno lasciava la sua casa ed attraversava le correnti avverse, come abitudine di ogni buon marinaio.  La singolarità del suo viaggio, però, consisteva nel fatto che il suo primo e più importante scopo fosse quello di riuscire a raggiungere uno scoglio, al largo, dove viveva incatenato un grosso serpente marino.

L’essere antico che abitava laggiù, non era infatti in grado di muoversi liberamente: era ferito, mutilato e terribilmente pericoloso. La creatura si dibatteva e ringhiava, talvolta sanguinava e costantemente tentava di liberarsi dal quel pesante giogo che gli impediva di ritornare nelle profondità degli abissi da cui proveniva. Nonostante ciò, il marinaio lo raggiungeva, lottando per avvicinarlo ed amorevolmente si assicurava che potesse nutrirsi. Ogni singolo giorno, da molti anni, sempre. Una volta sazio, l’animale si calmava, permettendo al suo curioso amico di rientrare al porto con animo pacato.

 Si dice che a quei tempi, gli esseri umani fossero soliti appropriarsi dei tesori custoditi dalle profonde acque azzurre, senza dimostrare particolare cura per ciò che era stato loro donato: così un dì accadde che il mare, in collera con gli dei che assecondavano queste cattive abitudini, scatenó il suo potere insieme a quello dei venti, dando vita ad una terribile tempesta. I vecchi raccontano che tutte le creature degli abissi tremarono, poiché l’ira del re era così spaventosa che persino coloro che erano a conoscenza del potere di sovvertire l’alto con il basso ne avevano giusto timore.

Antichi passaggi furono aperti quel giorno, nel profondo delle acque, per oltrepassare il varco tra i due mondi.

L’uomo però, anche in quel frangente, mise in acqua la sua barca e partì.

Un anziano pescatore, che conosceva e con il quale aveva condiviso qualche alba fredda e ventosa, lo vide mentre prendeva i remi della sua imbarcazione: seduto sopra ad un secco tronco di quercia dimenticato lì dall’ultimo passaggio dell’acqua, il vecchio lo osservò e sorrise, fissandolo con lo sguardo di chi comprende.

 L’orizzonte era scuro, mentre le acque del cielo e del mare si confondevano tra di loro e a stento l’aria riusciva ad entrare nei polmoni, tanto era diventata greve e salata. Le creature selvagge degli abissi, inquiete, attaccavano ogni cosa, non distinguendo più gli esseri dal sangue caldo da quelli di ghiaccio. Ogni cosa era cupa ed il mare si mostrava assai soddisfatto, compiaciuto di una tale dimostrazione di potenza e collera che solo pochi avrebbero osato contrastare.

L’umano peró, sebbene capisse la grande sfida che lo attendeva, saltò lo stesso sulla barca ed iniziò il suo quotidiano viaggio. La violenza dell’acqua tagliava il volto, il sale lo feriva e bruciava la pelle : il buio iniziava ad avvolgere ogni cosa e la riva diventava sempre più lontana. Le sirene, richiamate in superficie dalle correnti profonde, pregustavano il sapore del loro umano banchetto.

Infine giunse anche il tuono, con la sua forza e la sua potenza, ad incutere timore al viaggiatore: non si accorse però che sua sorella, la folgore, lo stava accompagnando. Ad ogni fragoroso ruggito, ad ogni grido di battaglia, lei, luminosa, lo anticipava. Egli avrebbe voluto confondere, impaurire, minacciare, ma la luce di lei, al contrario, guidava.

Fu così che con intenzione contraria e conducendo la sorella in una inconsapevole danza, il tuono portó l’uomo proprio alla roccia dove il serpente era in catene, aiutandolo a raggiungere il suo scopo. Persona forte e tenace, egli lottó con tutte le sue forze per riuscire ad abbandonare l’imbarcazione e saltare a terra e, potendo contare sulle capacità apprese durante la sua lunga esperienza in mare, riuscì infine a raggiungere lo scoglio.

Con grande sorpresa però, si accorse subito che il sasso ospitava soltanto la pelle della grande bestia, ma non vi era più alcuna traccia dell’essere vivente. Resosi conto dell’accaduto si inginocchiò, le mani sul volto come a voler nascondere ciò che mai avrebbe voluto vedere.Disperato, si sforzava in cerca di una spiegazione, valutava ipotesi, piangeva…

In quel momento, improvvisamente, la tempesta si placò.

Il grande oceano si era accorto della presenza di un uomo, eretto su quella sporgenza di pietra lontana miglia dalla riva, triste e abbattuto senza un’apparente motivazione: posó quindi la mano a calmare la superficie dell’acqua, in modo da poter vedere un po’ meglio.

“Umano, perché ti disperi?”, domandó.

“Ho perso un amico, un fratello, qualcuno che mi salvó un giorno da una triste sorte e che, a causa mia, rimase intrappolato su questa roccia, per sempre”, rispose lui.

“Mi fu domandato un tempo, perché rischiassi ogni giorno la vita per salvare quella di una bestia ferita e pericolosa, ma molti umani non comprendono cosa significhi essere un’unica essenza, divisa in due parti. Solo alcuni comprendono, ma sono assai rari, mio re.”

Ció detto, l’uomo, sfinito, si lasciò andare: vinto dalla tristezza e dal sonno e accovacciato accanto ai resti di ciò che un tempo era stato il suo fedele e pericoloso amico, si addormentò. Le onde allora, sussurrando parole antiche, dolcemente lo ricondussero a riva.

Lo spirito del mare quel giorno convenne che la saggezza non debba essere attribuita soltanto alle creature magiche, né solo a quelle umane.

Egli riconobbe che il valore, il coraggio, la costanza e la forza possano abitare il più piccolo essere così come il più possente dei custodi del tempo e che talvolta ciò che appare semplice agli occhi di molti possa essere letto da altre possibili voci e dalle labbra di pochi.

Fu così che da quel momento, imparó ad osservare con molta cura ogni piccola cosa, fosse essa umana, magica, oscura o di luce, facendo attenzione a non considerare soltanto ciò che l’apparenza racconta di sé.